L’altra Marilyn – da “Wall Street International”

Marilyn, la femme fatal, ancora una volta nuda davanti a noi. Spogliata di quegli abiti che non coprivano solo un corpo perfetto e sinuoso, ma anche l’anima, come una maschera. La maschera del mito, del sex symbol, che l’ha trasformata in una favola. “Non mi interessano i soldi, voglio solo essere meravigliosa”, diceva. E trascorreva sei ore nella sala trucco alla ricerca di quella perfezione assoluta che potesse soddisfare il suo narcisismo ed essere un’ancora per la sua sconfinata insicurezza. Perché dietro la grande Marilyn Monroe, attrice-dea e insieme oca bionda, c’era un’altra Marilyn, anzi c’era Norma.

Per la precisione c’era Norma Jeane Mortenson, figlia di Gladys, bella donna dalla vita sessuale abbondante e promiscua e dal tragico destino psichiatrico. Oltre a non aver mai saputo chi fosse suo padre, Norma era anche nipote di Della, che aveva cercato di soffocarla con un cuscino prima di essere internata con la diagnosi di “psicosi maniaco-depressivi”. Il bisnonno, che di cognome faceva Monroe, era invece morto suicida, per impiccamento. Vari gli orfanotrofi e dodici le famiglie affidatarie che si erano prese in qualche modo cura di lei, vista l’assenza pressoché costante della madre, e due gli episodi conosciuti di molestie sessuali, il primo all’età di 9 anni e il secondo di 11, entrambi all’interno dei nuclei familiari adottivi.

C’è poco da stupirsi se Norma ha cercato con tutte le sue forze e con ferrea determinazione di rompere le sbarre di quella gabbia di povertà, tristezza e incultura e abbia usato il suo splendido corpo e la sua bocca sensuale per trasformarsi nell’impudica svampita e ipersessuata Marilyn. Semmai ci sarebbe da chiedersi perché quell’immagine artificiosa di donna felice che nascondeva una psicologia gravemente ammalata dai marcati tratti bipolari, con numerosi tentativi di suicidio alle spalle, fobica, sospettosa, paranoica, dipendente dai farmaci, dall’alcol, dal caffè, dalla cocaina, dal telefono, dal sesso, dagli psicanalisti e dalla fama, abbia potuto diventare una leggenda vivente di dimensioni pressoché mondiali.

Come è successo a molte altre star, da Jim Morrison e Jimi Hendrix, da Brian Jones a Amy Winehouse, e, recentemente, Prince, tutti spericolati guidatori di vite dominate dal malessere esistenziale e dalla droga, e tutti morti giovani per suicidio o overdose. Dimensioni borderline che sono diventate sempre più frequenti nelle cliniche, ma anche nella società in cui quotidianamente viviamo. Per questo due psichiatri, Liliana Dell’Osso e Riccardo Delle Luche hanno riesaminato il “caso Marilyn” alla luce delle nuove tendenze della psichiatria e della psicanalisi indagando la documentazione clinica, i materiali biografici, i video e una serie di poesie, appunti, note di diario e riflessioni scritte dall’attrice stessa. Così è nato L’altra Marilyn. Psichiatria e Psicoanalisi di un cold case (casa editrice Le Lettere), un saggio che affronta con un linguaggio semplice problematiche complesse . “Credo che le acquisizioni scientifiche debbano essere rese comprensibili e divulgate al maggior numero possibile di persone”, spiega Liliana Dell’Osso che insieme a Delle Luche è partita da Marilyn per allargarsi anche al mestiere dell’attore, alla psicopatologia del doppio, della personalità multipla e della maschera con le infinite possibilità di modulazione del rapporto tra attore e personaggio.

Lei, però, eroina tragica, non riusciva a coincidere con la sua maschera e ne soffriva: impossibile diventare una vera attrice, come avrebbe voluto, visto che già recitava Marilyn. Così, se le sue numerose patologie psichiche l’hanno all’inizio spronata e aiutata a inventare il personaggio della vamp stratosferica, alla fine sono emerse in tutta la loro gravità. Cure sbagliate, mariti e amanti che se ne andavano, il licenziamento della Fox, il fallimento del tentativo di avviare una propria azienda di produzione innescarono un circolo vizioso inevitabile in cui le sue dipendenze da tutto e da tutti si amplificarono fino a rendere catastrofica la sua condizione psichica.

Norma Jeane e Marilyn non potevano più coabitare. Nel suo ultimo mese di vita il suo psichiatra, Ralph Greenson, l’ha visitata 28 volte, di cui due il 4 agosto del 1962, cioè il sabato della nefasta notte in cui sarebbe morta. Sottolinea Liliana Dell’Osso: “Nella malattia mentale gli eventi traumatici si sommano in una progressione continua che la rendono cronica e naturalmente la aggravano. Aggiungiamo che i farmaci di allora non erano appropriati e che il suo psichiatra era di mano pesante. Fatto è che quella maschera lei era stata costretta a indossarla per nascondere Norma Jeane. Ma parliamoci chiaro: una maschera ce l’abbiamo tutti, però la togliamo quando vogliamo. Lei no, lei non poteva togliersela, perché senza la maschera era niente, tornava ad essere la povera orfanella senza istruzione, senza padre, con una madre assente e ammalata, una bambina di tre anni che non riusciva a comunicare”.

Povera Marilyn, che “parlava” solo attraverso il sesso e che quando riusciva a vincere la perenne insonnia viveva nell’inconscio la falsità del suo personaggio. In un sogno del 1956, quando già la malattia stava galoppando verso la meta finale, lei vede tutte le persone a lei più vicine che cercavano di guarirla con un’operazione. Ma quando affondano il bisturi nel suo corpo trovano solo segatura. Una bambola di gomma piena di vuoto, al cui interno non c’è nulla di vivo, né di umano. Niente anima, niente di niente. A questo punto poco importa ai due autori indagare su come sia morta Marilyn. Fu suicidio? Fu overdose di farmaci prescritti dallo psicanalista e somministrati attraverso un clistere? Fu omicidio volontario legato alle minacce dell’attrice – fatte pochi giorni prima a Bob Kennedy – di rivelare alcuni segreti di Stato?

Esistono prove pro e contro ognuna di queste ipotesi, ma la sua tragica fine ad appena 36 anni appare comunque una conclusione necessaria, inevitabile, di un processo drammatico e irreversibile. E allora ecco la diagnosi. “Non è sensato pensare che in uno stesso individuo coesistano così tanti disturbi psichici, mentre è ragionevole ricondurli ad un denominatore comune, ad una condizione morbosa unificante che individuiamo nella vulnerabilità cerebrale. È questa la matrice innata su cui si innescano i vari eventi negativi o traumatici, come le separazioni, gli abbandoni, le difficoltà interpersonali, provocando una reazione a catena che, se non è trattata tempestivamente, dà origine a patologie mentali gravi, come quella di Marylin”.

In psichiatria si chiama “spettro autistico sottosoglia” e nella storia familiare dell’attrice si era già espresso più di una volta in maniera persino più grave. Impossibile oggi ricondurre la sua malattia ai soli aspetti psicologici. Lo dimostrano anche le più recenti scoperte delle neuroscienze: è dal cervello che tutto nasce perché “il pensiero è il frutto del nostro cervello, così come la bile è il frutto del nostro fegato”. Norma Jeane è dunque nata con uno spettro autistico che l’ha aiutata a crearsi una immagine falsa, ma perfetta, sprofondandola però negli abissi della malattia quando la sua inadeguatezza a identificarsi con Marilyn, la dea, è diventata sempre più evidente, e quindi ossessiva.

Ma quante Marylin ci sono oggi e qual è il confine tra normalità e patologia? “La soglia è arbitraria e cambia a seconda delle epoche e dell’ambiente. la normalità assoluta comunque non esiste: tutti noi abbiamo fragilità. E di Marilyn ce ne sono tante, sia nelle cliniche che fuori. Gli uomini ‘belli e dannati’, però, sono assai di più. La percentuale tra maschi e femmine con spettro autistico sottosoglia è di 8 a 1. Ma nel 70 per cento dei casi la patologia non si sviluppa perché si riescono ad acquisire competenze sociali che nel corso della vita portano a un miglioramento. Sono più sfortunati e sfociano nella malattia coloro che, nati con una situazione genetica grave, incontrano condizioni ambientali sfavorevoli”.

Pensare “diverso”, però, è una ricchezza. Liliana Dell’Osso ce la spiega così: “I tratti di autismo sottile sottosoglia in realtà sono quelli che forniscono un’originalità di pensiero e tutto ha origine dall’originalità. Pensiamo a scrittori come Virginia Woolf e Ernest Hemingway, già ampiamente setacciati dagli studi psichiatrici, o a scienziati come Albert Einstein. Sono tutte persone che esulano dalla norma, che hanno un modo di ragionare e di pensare diverso. Si potrebbe persino ipotizzare che l’umanità, per la sua evoluzione, abbia necessità della diversità, della neuroatipia, e che il disturbo mentale che vi si può associare è un rischio che dal punto di vista evoluzionistico vale la pena di correre”.

 

LINK: http://wsimag.com/it/spettacoli/20804-laltra-marilyn

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